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WELLNESS – MEDICINA ALTERNATIVA

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La morte come transizione naturale da prospettive spirituali o concrete differenti

La morte come transizione naturale da prospettive spirituali o concrete differenti

Attraversando – Una recensione di Piera Lombardi

21 febbraio 2015 di Simonetta Putti with Commenti disabilitati su Attraversando – Una recensione di Piera Lombardi

C’è un modo di dire tibetano che dovremmo tenere a mente, sia per rispettare l’ordine di grandezze esistente in natura che per devota accettazione della nostra finitezza: “Di tutte le impronte, quella dell’elefante è la suprema; di tutte le meditazioni di presenza mentale, quella sulla morte è la suprema”. 

Ecco perché possiamo intendere oggi la morte come transizione naturale da prospettive spirituali o concrete differenti:

A precise latitudini, ci sono culture talmente ‘al naturale’ per cui la morte è fondamento del vivere e la vita è preparazione al grande evento trasformativo. 

Invece il ‘narcisismo mortifero’ d’Occidente, secondo l’incisiva definizione dello psichiatra antropologo Bruno Callieri (che lasciate le spoglie mortali è più vivo che mai), fugge la morte.

 A casa nostra importa distrarsi dai ‘cattivi pensieri’, avendo sempre più relegato il morire all’extraterritorialità di un decesso in reparti ospedalieri piuttosto che in centri di terapia antidolore.

Eppure morte, morti, trapassati sono in ogni nostro istante, scandiscono ogni respiro sia pure a narici otturate e morituri siamo. Ce lo ricorda, ‘Attraversando’ (Eur edizioni): breve silloge curata dalla psicoanalista junghiana Simonetta Putti, che di sorella morte, del limite e del suo senso preferisce occuparsene e farli vivere.

 Attraversando è una piccola raccolta di scritti così densa di spunti e suggerimenti da poter rintracciare infinite vie esplorative; un ‘memento’ rivolto a menti esperte in rimozione forzata; un campionario esplorativo di esperienze estreme per familiarizzare con la “grande Incognita, iscritta nella carne stessa dell’uomo, radice costitutiva dell’ambiguità del suo esserci”, (è ancora Callieri a ricordarcelo).

Dello psichiatra fenomenologo, ‘maestro senza cattedra’ che tante sementi ha piantato in ogni contrada terapeutica attraversando, lui sì, mortali confinamenti e letali pregiudizi ideologici, il libro riporta una relazione tenuta a un convegno Gestalt sulle forme del morire, soprattutto il suicidio. 

Non è detto esso sia un evento patologico: la nozione oggi acquisita, persino data per scontata, non lo era molti anni fa quando osò proporla a un congresso psichiatrico riflettendo sul suicidio di Cesare Pavese.

Grazie a queste pagine Callieri torna a parlarci con la voce che abbiamo conosciuto: dialogante, aperta a ogni prospettiva culturale che forgi l’umano; voce accesa e tuonante contro la psichiatrizzazione di ogni aspetto della vita come del morire; forte nell’invocare una medicina capace di farsi antropologia per non sopprimere l’altro con la scusa di curarlo.

Alfredo Ancora, che ne fu allievo e oggi è uno psichiatra transculturale, esperto di sciamanesimo, esplora la maniera di lasciare il mondo in mondi che hanno da insegnarci ancora molto, a dispetto della globalizzazione. E come compie quest’esplorazione uno psichiatra transculturale?

Lo fa attraversando confini culturali e spaziali, ad esempio seguendo A Ulaan Baatar, capitale della Mongolia, una sciamana diretta in un piccolo villaggio dove c’è una donna in fin di vita.

Scoprirà il medico che il rito della guaritrice smentisce le previsioni occidentali su magici atti, e consiste nel saper accompagnare alla morte con umanità e compassione: ingredienti salvifici che trasformano chi va e chi resta.

Altre culture poi sanno celebrare con gioia “la fine propria di una buona vita” (il riferimento è al film Dreams di Kurosawa), mentre “l’orientamento principale della cultura occidentale, basata su pensieri dicotomici e separanti (inizio/fine, vita/morte, mente/corpo) è stato sempre quello di evitarne il pensiero, di rimuoverlo, rinforzando così il senso di onnipotenza ed escogitando tutti i possibili dispositivi per esorcizzarne la paura” scrive Ancora.

Sopravvivere alla morte è un capitolo tratto dall’ Eclissi dello sguardo, libro dell’inventore della psicologia dell’anima postmoderna, Aldo Carotenuto, scomparso già dieci anni fa.

Carotenuto aveva il dono della parola, sapeva trattare con semplicità i temi più spinosi fino a riportarli a un’evidenza naturale. La morte di chi amiamo nella sua accezione è la nostra, ci costringe a entrare nel “mondo degli inconsolabili”. 

Il tempo può non sanare un bel nulla a dispetto dei luoghi comuni e forse nulla è da sanare: nel silenzio che diventa sacralità, perché far morire nel nostro mondo interiore chi abbiamo amato e possiamo continuare ad amare? 

La morte ci riduce a essenza. Così è anche il silenzio dell’analisi.

Il morente come un puer, è un novello esploratore, abitante di una dimensione in cui “tutto è condensato nell’istante”. 

Il morire è “un compimento, ma al tempo stesso l’inizio di un’esperienza totalizzante, un mettersi completamente al mondo prima di sparire’.

Ci sono luoghi che inglobano la morte e se ne fanno vanto, anzi si distinguono proprio per la fusione eccentrica con essa: Napoli, fin dal suo mito fondativo, ne è impastata.

Il suicidio di Partenope respinta da Ulisse racconta proprio questo. Mito con tante varianti che fonda l’inconscio collettivo napoletano, come quello culturale secondo la nozione di Joseph Henderson, allievo ed erede di Jung. Caratteristiche che conferiscono al concetto di napoletanità uno specifico antropologico, descritto con rigore e vivacità ‘partigiana’ dalla psicoanalista Paola Russo.

Si pensi al culto delle anime del Purgatorio, “specie di porta rituale tra il mondo dei vivi e quello dei morti dove lo scambio non è solo di sentimenti perduti, ma è uno scambio attivo e concreto”.

L’ultima modalità di rimozione e pretesa di immortalità senza precedenti nella storia umana, ma anche estrema forma di confusione tra vita e morte, si manifesta platealmente sul web 2.0.

Ne scrive Simonetta Putti ricordando conversazioni informali con Callieri che parlava di intimi sconosciuti a proposito delle nuove relazioni umane via Internet.

Fin dagli albori, Putti si è occupata della rivoluzione digitale indagandone la mutazione antropologica e le implicazioni psicoterapeutiche.

Più che un “lutto perpetuo” (quale si riscontra dalle pagine di social network che, attivate da persone defunte, restano immutate), la psicoanalista riscontra una confusione tra vita e morte che genera “concreta disinformazione e dispercezione”.

Comunque è un segnale di non elaborazione del lutto. La persistenza di dati personali nel web pone anche problemi che interesseranno sempre più la riflessione giuridica, filosofica, etica nonché psicopatologica perché “la cultura della simulazione spesso esita in un progressivo distacco dalla realtà, e quindi anche dalle linee portanti vita morte” (Putti).

La prefazione di Amedeo Caruso anticipa, accompagna i testi in musica ma anche con taglio cinematografico (da cinefilo quale è), ed è riflessione a sé stante nel proporre altri risvolti altro, tra aneddoti più meno noti di attori e scrittori, un riferimento al Suicidio e l’anima di Hillman.

Google sta tirando fuori dal cilindro il testamento digitale: si ha la facoltà di scegliere a chi lasciare ‘i resti’ dell’account inattivo.

Se ne vedranno delle belle o solo delle macabre, prossimamente? Più che paura della morte in quanto tale, sembra di dover scontare in quest’epoca il “morire di non morire” di cui parlava David Maria Turoldo.

Da ‘il dramma che è Dio’ a quello dei motori di ricerca e company.